Ex - CAMBIARE LA SOCIETA', CAMBIANDO SE STESSI

10 ottobre 2005

Gli occhiali rotti di Salvator Allende


Recensione del film “Salvator Allende”

Gli occhiali rotti, la fine di una battaglia. Rimane solo un pezzo da museo. La memoria ripercorre vicoli oscuri e dimenticati di una straordinaria storia di speranze, democrazia, sogni. Ovvero la parte migliore dell’Uomo.
Il Cile dei primi anni ’70 vedeva l’ascesa alla poltrona presidenziale di Salvator Allende, socialista non allineato alla Russia “comunista”, con idee ben chiare su come risollevare le sorti del proprio paese: nazionalizzazione delle industrie che producevano beni essenziali (energia, materie prime, alimenti di base, ecc.) e confisca dei terreni ai latifondisti con seguente ridistribuzione ai contadini che vi lavoravano. Con un programma elettorale del genere, oggi un politico verrebbe sbeffeggiato: Salvator Allende vinse le libere elezioni in Cile. Sogni, speranze. Tutto il paese si strinse attorno al proprio leader in un coacervo di amore e sfida. O meglio, quasi tutto il paese. Oggi abbiamo visto cose simili in Brasile con Lula, in Venezuela con Chavez. Ed anche qui, la storia si ripete.
Il programma, Allende lo attuò davvero: Nixon non gradì affatto, e cominciò a finanziare pesantemente la borghesia locale, in stretti rapporti con l’entourage militare cileno e alcuni settori della destra radicale. Partirono scioperi della benzina, blocchi stradali, il paese si fermò. Tutti i mezzi di comunicazione erano in mano alle destre. Il governo di Allende ne uscì più forte di prima.
Gli Stati Uniti d’America, allora, passarono alle maniere forti. In un crescendo di emozioni, il film ci accompagna in questo cammino verso la morte, in questa testimonianza di guerra, arroganza, disillusione: ovvero il peggio dell’Uomo.
I bombardieri partirono alla volta del parlamento e lo incenerirono. Allende non abbandonò la sua poltrona di comando nel palazzo ma, quando ormai i militari salivano le scale per arrestarlo, si suicidò con il fucile in mano, lui che aveva fatto della “Rivoluzione senza armi” il suo orgoglio di una vita spesa per il suo Paese.
A capo del golpe militare c’era Pinochet. Gli anni successivi furono terrore, repressioni sanguinarie, sparizioni (i cosiddetti “desaparecidos”). Una delle tante dittature nere imposte dagli Stati Uniti in tutto il Sudamerica: il Cile, appunto, il Guatemala, il Nicaragua, ecc.
Questa la storia. Il film mette in evidenza anche il Salvator Allende uomo: la sua crescita, la sua formazione politica ad opera di un ciabattino anarchico italiano, i suoi affetti. Il ritratto appare così abbastanza esaustivo, grezzo, vero, attraverso una carrellata di immagini d’archivio, discorsi pubblici, numerose interviste di personaggi e gente comune. E sono quest’ultime quelle che colpiscono di più: i loro occhi, inquadrati senza esitazione mentre sono persi in un mondo lontano, lasciano la testimonianza più emozionante di questo fondamentale pezzo di storia.
Il Cile di oggi, però, non vuole fare i conti con quel passato in cui ha lasciato alla fine il suo Allende da solo, in balìa dei militari, non vuole rischiare di invischiarsi le mani in un torbido passato troppo recente, ha paura della dittatura anche se ormai finita e dei suoi focolai ancora ben accesi nel paese a tutti i livelli.
Forse ancora non è tempo, ma intanto Guzmàn, il regista cileno di questo film, autoesiliatosi dai tempi di Pinochet, ha fatto un’opera di recupero di memoria collettiva, ha aperto una breccia per l’inizio di una giusta collocazione storica di un personaggio messo finora troppo in ombra e che invece serve oggi in luce. La sua storia e quella del suo Cile è infatti di pressante attualità: la guerra, l’arroganza, la disillusione, non sono ancora finiti.